di Lorenza Fruci
“L’ho letto su Google” ha mandato in soffitta “L’ha detto la TV”: il 15 settembre 2022 il motore di ricerca del web più cliccato al mondo ha compiuto 25 anni, contro i 68 della tv italiana. Se nei primi anni ‘90 il filosofo Karl Popper, nel suo storico saggio Una patente per fare tv, definì il piccolo schermo come “Dio stesso che parla”, in che termini oggi possiamo parlare di Google?
Registrato come motore di ricerca nel settembre del 1997 da due studenti della Stanford University, Larry Page e Sergey Brin, la sua missione dichiarata è “organizzare le informazioni di tutto il mondo e renderle accessibili e utili a livello globale”. E aggiungerei: gratis.
Ambiziosamente democratico, questo obiettivo negli anni si è rivelato più complesso del previsto, sia per il modello di business sotteso, sia per le evoluzioni tecnologiche e sociali che ne hanno influenzato gli sviluppi.
Basandosi sull’algoritmo di ricerca PageRank, che classificava le pagine in base alla loro popolarità, il primo indice web di Google.com includeva 26 milioni di URL, che nel 2000 divennero 1 miliardo.
Nel 2001, grazie alla curiosità virale scaturita dall’abito verde Versace indossato da Jennifer Lopez durante i Grammy Awards del 2000, venne lanciato Immagini e nel 2007 la ricerca diventò Universale, cioè in grado di fornire risultati sotto forma di video, foto e libri; a seguire arrivò Lens che dal 2017 permette alla fotocamera di decodificare un’immagine in una query (ricerca). Ma l’evoluzione più significativa si verificò quando il motore di ricerca si trasformò in un vero e proprio fornitore di servizi, come AdWords, una piattaforma pubblicitaria, My Business per le attività commerciali e Local che sostituì le Pagine Gialle. Google si interessò anche alla cultura e con Libri diventò la più grande biblioteca del mondo, mentre con Arts & Culture si è offerto ai musei come piattaforma per metterne in rete le opere digitalizzate.
Le conseguenze più pervasive della sua diffusione si sono riscontrate però nella nostra quotidianità: nel 2001 abbiamo smesso di studiare l’ortografia affidandoci al controllo ortografico, nel 2005 abbiamo buttato i TomTom per passare a Maps e dal 2006 abbiamo rinunciato a studiare le lingue avendo in tasca il Traduttore istantaneo. La nostra vita è entrata in simbiosi con Google e le sue piattaforme, e con il passare del tempo sul motore di ricerca non abbiamo trovato solo informazioni per noi, ma anche informazioni su di noi.
I nostri profili social e i dati sul nostro lavoro sono diventati materiale autobiografico archiviato da Google, che ne ha fatto il nostro CV a disposizione di tutti e non sempre con clemenza verso di noi: aggregando notizie che nella realtà non ci rappresentano del tutto, ci ha costruito una reputazione sulla quale non abbiamo più il totale controllo.
Ammettiamolo, quante volte abbiamo googlato il nostro nome o quello di una persona che avremo conosciuto a breve? E, quanti di noi, che fanno un lavoro pubblico, si ritrovano con una gallery della propria storia professionale, che altro non fa che mostrare al mondo quanto stiamo invecchiando online? Oggi, il vero lusso è non essere intercettati dall’algoritmo di Google. Evitando di scomodare Popper, in questo caso mi basta citare mia zia Franca che, non ricordando l’età di Gianni Morandi, ha esclamato senza esitazione “C’avemo la spia! Vado a cercare su internet!”.
Come utenti della rete siamo i primi a fornire notizie su di noi, tanto che oggi parlare di privacy e di diritto all’oblio ci fa apparire vetusti. Come specchio dei tempi, in questi primi 25 anni di storia, Google si è evoluto da motore di ricerca a ecosistema digitale, gestito inizialmente dalla società Google LLC nata nel 1998 e successivamente dalla holding Alphabet fondata nel 2015. Un business basato sugli introiti della pubblicità e alimentato soprattutto dal tracciamento dei nostri dati che noi cediamo pur di vivere all’interno di questo ecosistema (The Truman Show ci ricorda qualcosa?). Un esempio su tutti è la cronologia delle nostre ricerche, riassunto delle nostre preferenze di consumatori che è fonte di ricavi per Google.
Ma quanta concreta consapevolezza abbiamo di questo processo? La stessa che non abbiamo avuto con la tv, il cui paragone è sintetizzato dal mediologo Antonio Pavolini nel libro Unframing (Ledizioni 2021): “quello che prima faceva il palinsesto, oggi lo fa l’algoritmo”. Senza diventare luddisti, dovremmo chiederci quanto siamo educati a questi modelli di business che capitalizzano le nostre abitudini. Google si difende sostenendo che, malgrado la sua espansione, la sua missione è rimasta quella di fornire informazioni, che però -ricordiamo- sono potere (di decidere e di agire o meno). Se alcune informazioni sono oggettive, come una data storica, altre si riferiscono a argomenti più complessi e rientrano nel recinto delle opinioni, detto anche “marketing delle idee”, e ripropongono l’antica (ma invecchiata male) questione delle fonti. Quali fonti ci propone Google in risposta a una query? Quelle che corrispondono al suo algoritmo di ricerca, sensibile alle sponsorizzazioni, alle visualizzazioni e principalmente al SEO (strategia per ottimizzare i contenuti). Per avere accesso a informazioni più diversificate possibili bisognerebbe avere la pazienza di superare almeno la terza pagina dell’elenco presentato da Google. Ma neppure questo ci mette al riparo dall’inaffidabilità delle fonti perché alla fine è sempre la nostra capacità di critica e di analisi a fare la differenza. Ecco perché ancora una volta torna il tema della consapevolezza dell’uso dei media (tutti) per evitare di esserne manipolati.
A proposito, per scrivere questo articolo è stato consultato il motore di ricerca Google che, in questo unico caso, è fonte certa per quanto riguarda la sua stessa storia…