Oggi lo apostroferemmo underdog. Ma negli anni ’90 quelli come lui li chiamavamo underground. Stiamo parlando di Cavallo Pazzo, al secolo Mario Appignani, noto ai più per essersi permesso di interrompere il rito italiano per antonomasia: il Festival di Sanremo condotto da Pippo Baudo. Era il 1992, ma già l’anno prima aveva fatto irruzione al Festival del Cinema di Venezia, vittima sempre il Baudo nazionalpopolare. Non contento di dissacrare i grandi eventi in lacchè, negli anni successivi Cavallo Pazzo puntò agli stadi di calcio, facendo incursione durante le partite in diretta televisiva, soprattutto quelle della Roma “adottato” dagli Ultras.

Dunque, è solo di uno scriteriato, mosso da esibizionismo tout court e antesignano dei vari Gabriele Paolini (capaci solo di impallare l’inquadratura del povero conduttore di TG di turno), che stiamo parlando? No, niente affatto. Cavallo Pazzo era altro.

Nato nel 1954 a Roma, figlio di una prostituta, affidato a un brefotrofio, cresciuto tra le pareti degli istituti di rieducazione, forgiato da abusi e violenze, una volta maggiorenne vive alla giornata. Prostituzione, furti, sfighe, entra ed esce dal carcere fino alla fine della sua vita. Saturo di sofferenze, nel 1974 scrive l’autobiografia “Un Ragazzo all’Inferno – viaggio allucinante in 19 istituti di rieducazione” con prefazione di Marco Pannella. In queste pagine, oggi introvabili se non su ebay, racconta dei maltrattamenti subiti nell’istituto Santa Rita di Grottaferrata diretto da Maria Diletta Pagliuca (poi arrestata) e degli elettroshock patiti al Santa Maria della Pietà di Roma. Un caso editoriale che porta la politica ad interessarsi alle condizioni di vita dei bambini rinchiusi in questi istituti e che fa di Appignani uno dei protagonisti della scena underground romana. Vivendo ondivago tra i sanpietrini, intercetta i movimenti politici degli anni ’70 che infervorano le piazze. Nel 1977 si ribattezza Cavallo Pazzo e si autoproclama capo degli Indiani Metropolitani, frequenta i Radicali e poi il Partito socialista. Sempre in cerca di una casa. Che però non troverà mai. I politici e gli artisti lo conoscono, lo frequentano, lo aiutano anche, ma non lo considerano mai uno di loro. Resterà infatti sempre un “pezzo unico, difficile da riassemblare e “impresentabile” come molti altri irripetibili personaggi romani” scrive Stefano Ciavatta nel catalogo della mostra “Cavallo Pazzo/Mario Appignani, Frammenti di una Vita Underground” che il WeGil di Roma gli dedica fino al 7 maggio 2023.

33 fotografie inedite di Andrea Falcon, un catalogo, un’opera e un video di Leonardo Crudi compongono questa mostra, curata da Valerio M. Trapasso che l’ha concepita come “un omaggio a tutti gli scoppiati che ogni grande città coltiva dentro sé e che ci regalano lampi di poesia. Raccontare la storia di Mario Appignani significa raccontare la storia d’Italia dagli anni ’70 fino alla metà degli anni ’90. È un personaggio di superficie che cerca la ribalta, un underground di superficie”. Conferma il suo ritratto anche Andrea Falcon: “Mi diceva che era un uomo di spettacolo, parlava di politica perché riguarda tutti, ma a lui interessava lo show. Lo conobbi nel 1994, era ospite della comunità Saman di Borgo Sabotino, fuori Latina, dove mio fratello aveva avviato un cantiere nautico per far lavorare giovani ex tossicodipendenti. Ma Mario non era lì per problemi di droga, credo fosse un uomo solo. Mi vide con la macchina fotografica e mi propose di seguirlo. Io avevo 24 anni e lo feci per gioco per un anno. In tutto questo tempo mi sono chiesto cosa fare con queste foto”. E alla fine la riposta è arrivata da sola. A parlare a Valerio M. Trapasso dei negativi chiusi nel cassetto di Andrea Falcon è stato lo scrittore Patrizio Bati, sapendo che il curatore della mostra stava lavorando anche ad un documentario su Cavallo Pazzo. Una storia nella storia se si pensa che Falcon è impegnato da anni nel racconto giornalistico e fotografico del mondo della vela: solo lo sguardo disinteressato di un giovane, estraneo alle dinamiche del generone romano, poteva restituirci la spontaneità di Appignani (che invece quelle dinamiche le conosceva bene). A mostrarsi all’obiettivo di Falcon infatti non è la maschera Cavallo Pazzo, ma l’uomo Mario che passeggia tra vicoli e pizzardoni romani, che legge Il Messaggero in un bar mangiando un gelato, che guarda i negativi che lo ritraggono. Ma soprattutto si fa fotografare mentre dipinge quadri che negli anni ’90 comprarono molti politici, tra cui Bettino Craxi. E a proposito dell’ex segretario del PSI: le foto più simboliche in mostra sono quelle che ritraggono Appignani in giacca e cravatta che esce dall’Hotel Raphael, facendo il verso all’episodio del 1993 in cui il politico venne contestato con il famoso lancio di monetine. È l’immagine di una delle sue performance. Ma non di quelle urlate e fisiche a cui ci aveva abituati in tv. Se non sapessimo che quello è Cavallo Pazzo potremmo anche credere che sia un ospite dell’albergo. E invece siamo di fronte ad un’altra delle sue messe in scena, in cui cita se stesso, ricordandoci che è stato un performer ante litteram che aveva capito il potere dei media, la psicologia delle masse e soprattutto che sapeva come giravano gli intrighi di palazzo. A volte le piccole mostre segnano il tempo più delle grandi, grazie alla loro capacità di unire i puntini per portare a sintesi la complessità di un tempo storico.

Eppure alla fine della mostra resta una domanda: perché Cavallo Pazzo faceva quelle incursioni? Un io frammentato desideroso di ricomporsi? Un’identità a cui dare un’immagine? Una visibilità necessaria a mettere a tacere un bisogno di amore? Probabilmente nessuno lo sa. Ma nel frattempo ci ha messo di fronte alla vulnerabilità dei grandi eventi, riti collettivi nei quali cerchiamo rassicurazione, masse nelle quali ci rifugiamo facendoci sordi ai rumori che ci abitano. Cavallo Pazzo ci ha mostrato che anche quei cerimoniali possono diventare inconsolabili, così come probabilmente lo è sempre stato il suo animo dolente. Dopotutto non c’è tregua per gli infelici.

Muore per AIDS nel 1996 a soli a 41 anni allo Spallanzani, portando con sé una serie di pendenze giudiziarie e lasciando nell’armadietto dell’ospedale uno smoking sempre pronto per le sue azioni. Il Comune di Roma, per volere del sindaco di allora Francesco Rutelli, che lo aveva conosciuto al tempo dei Radicali, si farà carico delle spese del funerale. Perché anche lui, come tanti altri suoi fratelli orfani, era un figlio della Lupa capitolina.